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Workaholism: quando il lavoro diventa tutto (e tu rischi di dimenticarti chi sei)

30 apr 2025 | 4 minuti di lettura
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C’è una scena ormai classica nella vita di molte persone: la sveglia suona, si afferra il telefono ancora prima di alzarsi e, prima ancora del caffè, la mente è già nella prima riunione della giornata.
Benvenuti e benvenute nella cultura del workaholism – o, per dirla in modo più diretto, della dipendenza dal lavoro.

Negli ultimi anni, questa abitudine a “non staccare mai” si è trasformata da eccezione a regola. In moltissimi casi, il confine tra lavoro e vita personale si è fatto così sottile che sembra scomparso del tutto. E la cosa preoccupante è che spesso non ce ne accorgiamo neppure. Essere sempre operativi, sempre connessi, sempre pronti a rispondere è diventato uno standard. Ma no, non è normale.

Oggi il lavoro non è più solo un mezzo per vivere: è diventato un’identità. Una misura del proprio valore. Un biglietto da visita che racconta (o pretende di raccontare) chi siamo. Se non si ha una carriera brillante, in ascesa costante e piena di progetti da condividere, si finisce spesso per sentirsi inadeguati.
Il messaggio che passa è chiaro: se non stai facendo qualcosa, stai sbagliando.

Eppure, c’è un momento in cui tutto questo si trasforma da ambizione sana a dipendenza silenziosa. Quando il lavoro non è solo ciò che fai, ma diventa l’unica cosa che sei, allora è il momento di fermarsi e fare il punto.

Il lavoro come identità (e la domanda che non perdona)

“Che lavoro fai?” sembra una domanda innocua. Ma quante volte, dietro quella risposta, si sente di giocarsi tutto il proprio valore?

Biancamaria Cavallini, nel suo libro “Come stanno i tuoi?”, fotografa bene questa dinamica quando scrive:
“Siamo diventati i nostri lavori, come se non sapessimo più chi siamo senza di loro”.

Il rischio è evidente: se il valore personale coincide con la produttività, allora ogni pausa, ogni momento di stop, diventa un buco nero.
E quando si è definiti solo in base al proprio ruolo professionale, cosa resta quando quel ruolo non c’è? Spesso resta il senso di colpa.
La sensazione di non essere abbastanza. Di valere meno.

I segnali del workaholism che è meglio non ignorare

Ci sono segnali che indicano chiaramente quando si è entrati nella trappola.
Ad esempio, quando anche in vacanza il pensiero corre al lavoro. Oppure quando, a tavola con le persone care, si è ancora mentalmente dentro una call o un foglio Excel.
Un altro segnale? Dire sempre sì, a qualsiasi richiesta.
Perché dire di no fa paura, sembra un fallimento. Ma dire sempre sì, senza pause, diventa presto insostenibile.

C’è poi la corsa costante al prossimo obiettivo. Ogni traguardo raggiunto è subito rimpiazzato da una nuova urgenza, una nuova sfida, una nuova scadenza. Senza mai fermarsi. Senza mai riconoscere ciò che si è già ottenuto.

Il prezzo da pagare (e non si tratta solo di stanchezza)

La dipendenza da lavoro si paga cara. E non si tratta solo di essere stanchi.
Spesso le prime a risentirne sono le relazioni: amici e amiche che si sentono messi da parte, partner che iniziano a lamentarsi delle troppe assenze, familiari a cui si promette un “ci sentiamo presto” che viene puntualmente disatteso.

Poi, naturalmente, c’è il corpo. Che prima o poi lancia segnali chiari: insonnia, tensioni, ansia. Il tutto accompagnato da una sensazione costante di insoddisfazione, come se ogni sforzo non fosse mai abbastanza.

Sì, si può uscirne. E vale la pena provarci

Uscire dalla spirale del workaholism è possibile. Ma serve consapevolezza e, soprattutto, la volontà di cambiare prospettiva.
Imparare a mettere confini è un primo passo fondamentale. Il lavoro ha bisogno di un tempo e di uno spazio, ma non può invadere ogni angolo della giornata.

Serve anche riscoprire ciò che dà piacere, anche se non è “produttivo”. Cucinare, camminare, disegnare, ballare, stare in silenzio.
E serve coltivare relazioni autentiche, quelle che ricordano che si è molto di più del proprio job title.

Un piccolo esperimento per iniziare? Ignorare la casella di posta per un giorno intero, davvero.
Nessuna e-mail, nessuna notifica. Solo tempo per sé.
Potrebbe sorprenderti scoprire che il mondo continua a girare... e che tu stai ancora benissimo.

Il lavoro non è (e non dovrebbe essere) tutta la vita

Viviamo in una società che spinge verso l’iperproduttività, che celebra chi è sempre attivo e performante. Ma non si è definiti solo da quello che si produce.
La vita è fatta di molto altro: affetti, tempo libero, esperienze non monetizzabili ma fondamentali.

L’obiettivo non dovrebbe essere “vivere per lavorare”, ma lavorare e vivere. E se si riesce a fermarsi un momento, a mettere un po’ di distanza, si può finalmente tornare a respirare.

A sentire chi si è, oltre i task, le call e le performance.