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Salute mentale e lavoro: istruzioni per non far finta di niente

4 lug 2025 | 4 minuti di lettura
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Ah, la salute mentale… quell'argomento che fino a ieri era roba da "persone fragili" e oggi è diventato il trend del momento su LinkedIn. Tra un post motivazionale e l'altro, sembra che tutti abbiano scoperto l’importanza del “me time” ma quando si tratta di parlarne sul serio, di metterci la faccia e di lavorare in tutela dei propri dipendenti molte aziende (e molte persone) fanno ancora la figura dello struzzo. 

Perché diciamocelo: ammettere "sto veramente male" non è esattamente da biglietto da visita, così come dichiarare “i miei collaboratori ricevono e-mail ben dopo la fine dell’orario di lavoro e lavorano sotto urgenza”. Dall’altro canto, raccontare il burnout vissuto in prima persona non è quella cosa figa che ci fa sembrare super impegnati e bravi nel nostro lavoro, ma è una condizione che svuota dentro e ti fa sentire in adeguato, è ancora più scomodo.

Salute mentale: qualche dato che dovrebbe farci riflettere

Se pensate che il benessere psicologico sia roba per "sensibili" o un problema per pochi ecco un po' di realtà servita fredda. L'OMS dichiara che una persona su otto nel mondo convive con un disturbo mentale. In Italia, l'Istat ha scoperto che oltre 8 milioni di persone dichiarano sintomi depressivi o ansiosi. Otto milioni. Praticamente tutta la Lombardia più un pezzo del Veneto.

La parte interessante (o inquietante, a seconda dei punti di vista) è che spesso queste problematiche si intrecciano con il lavoro:

  • Il 40% dei lavoratori italiani dichiara di sentirsi stressato “spesso” o “molto spesso”.
     
  • La pandemia e lo smartworking hanno peggiorato il quadro, creando un senso di isolamento che fa sembrare "Cast Away" una commedia romantica
     
  • Secondo Eurofound, quasi un lavoratore su due in Europa ritiene che il proprio impiego abbia un impatto negativo sulla salute mentale.
     

Insomma, non è solo una questione privata, da risolvere in famiglia. Parliamo di un tema collettivo che riguarda tutti, anche quelli che pensano che per stare meglio “basta volerlo”.

Il lavoro moderno non aiuta (ma possiamo fare qualcosa)

Se una volta il lavoro era un posto fisico da cui scappare alle 18:00, oggi si estende a quella notifica perenne che  suona sul telefono anche mentre fai la doccia o sei a cena fuori. E le cause del disagio sono più numerose dei meeting inutili del lunedì mattina:

Le cause che alimentano il disagio non mancano:

  • Ipersconnessione: parliamo della sensazione di non potersi mai scollegare davvero, perché può succedere qualcosa di importante mentre dormi o ti stai dedicando alla tua vita privata;
     
  • Pressione costante a “performare”, come se tutti fossimo atleti olimpici e non persone alle prese con Teams.
     
  • Incertezza cronica: siamo onesti, nessuno di noi dorme tranquillo perché non sappiamo se un domani, professionalmente, esisteremo ancora.
     
  • Cultura del “se non dai tutto, non vali niente”, che scambia lo stakanovismo per passione e la vita privata come una fortuna.

    Riconoscere queste dinamiche non significa arrendersi anzi, è il primo passo per costruire ambienti di lavoro più sani, dove chiedere aiuto non sia un tabù e dove la vulnerabilità sia vista come un segnale di consapevolezza, non di debolezza.

Comunicare la salute mentale: tra creatività e responsabilità

Ed eccoci al punto più delicato: come si parla di salute mentale senza suonare come un guru di YouTube?

Ne abbiamo parlato con Francesco Morzaniga, copywriter e Direttore Creativo di Serenis. Lui con la salute mentale ci lavora tutti i giorni e sa che farlo bene significa costruire una comunicazione autentica e rispettosa attorno a un tema sensibile. 

Farlo bene vuol dire:

  • Uscire dai luoghi comuni (“basta pensare positivo!”, “un po’ di yoga e passa tutto”).
     
  • Rispettare la complessità senza ridurre tutto a slogan motivazionali.
     
  • Dare spazio a storie vere, in cui le persone possano riconoscersi senza sentirsi giudicate
     
  • Togliere il giudizio, perché nessuno sceglie di stare male.
     

Le campagne di sensibilizzazione più efficaci non puntano a creare pietà o sensazionalismo. Cercano di normalizzare la conversazione: dire che si va in terapia dovrebbe essere naturale quanto dire che si va dal dentista.

In un'epoca in cui la comunicazione corre veloce tra TikTok e newsletter, la sfida è trovare un linguaggio che unisca empatia e chiarezza, senza cadere nel pietismo o nel marketing da discount.

Una sfida per tutti (non solo per i creativi)

Oggi le aziende hanno la responsabilità, e l’opportunità, di contribuire a cambiare la percezione della salute mentale.

Come?

  • Promuovendo politiche di supporto reale.
     
  • Formando le persone manager a riconoscere i segnali di disagio.
     
  • Offrendo spazi di ascolto.
     
  • Raccontando il tema con autenticità, anche nella comunicazione esterna.


Perché parlare di salute mentale non può essere solo il trend del momento. È un segnale di maturità, di rispetto e di innovazione culturale e  se comunicare bene questi temi richiede coraggio e strategia, vale la pena provarci.

Perché dietro ogni messaggio c'è qualcuno che si sente meno solo. E a volte, quel messaggio è già un enorme passo avanti.


👉 Vuoi saperne di più?
Guarda l’intervista completa a Francesco Morzaniga per scoprire come si costruisce una comunicazione capace di abbattere lo stigma e dare voce a chi cerca aiuto.