C’è un momento preciso in cui la domanda arriva. A volte è silenziosa, appena accennata. Altre volte è brutale, e fa rumore dentro. Spesso arriva a fine giornata, quando hai fatto tutto quello che dovevi fare — risposto alle mail, partecipato alle riunioni, consegnato i task — eppure ti senti come se non avessi fatto nulla. O meglio: nulla che ti riguardi davvero. È lì che compare, senza preavviso:
“Ha senso quello che sto facendo?”
Questa domanda, per quanto scomoda, è uno dei segnali più autentici che possiamo ricevere. Non parla solo di lavoro. Parla di identità, di direzione, di coerenza. È la voce che ci ricorda che timbrare un cartellino non può bastare, che produrre non è vivere, che il successo non ha valore se ci allontana da ciò che siamo.
Il senso non è un lusso. È una necessità.
Sempre più persone stanno lasciando posizioni apparentemente “perfette” per ritrovarsi. Non cercano solo avanzamenti di carriera o stipendi più alti. Cercano coerenza. Cercano di sentirsi a casa anche sul lavoro.
Secondo LinkedIn (2024), il 61% dei professionisti europei oggi mette il senso del proprio lavoro sopra il prestigio del ruolo. La motivazione da sola non basta più: vogliamo appartenenza, valori, rispetto.
Vogliamo sapere che quello che facciamo ogni giorno ha un impatto, anche piccolo, anche imperfetto, ma autentico.
Non è retorica: è sopravvivenza emotiva. È salute mentale. È identità.
Prima di cambiare, devi capire dove sei
La ricerca del lavoro “giusto” non comincia con il CV. Comincia con te. Non è un atto impulsivo, è un atto di ascolto. Significa chiedersi:
In che tipo di ambiente riesco davvero a essere me stessə?
Quali sono i miei confini? I miei valori non negoziabili?
Questo non è un test motivazionale. È la base per smettere di adattarsi a qualsiasi cosa purché paghi le bollette. È ciò che distingue un cambiamento di superficie da una vera scelta di direzione.
Sì, cambiare lavoro è legittimo. E spesso necessario.
Restare in un lavoro che non ci rispecchia ha un costo altissimo, anche se non lo vediamo subito. Le energie si consumano, la motivazione si prosciuga, la fiducia in sé stessi si sgretola lentamente. E il rischio è che un giorno tutto questo collassi in burnout, apatia o frustrazione cronica.
Ma non serve una crisi per andarsene. Serve solo la consapevolezza che ciò che andava bene ieri, oggi può non andare più. E che questo è del tutto umano. Lasciare un lavoro non è una sconfitta. È una presa di posizione. È dire: “Merito di più. Merito qualcosa che abbia senso.”
Non esistono lavori perfetti, ma contesti migliori sì
Il punto non è andarsene a tutti i costi. Il punto è scegliere meglio dove andare. Non esistono ambienti ideali in senso assoluto, ma esistono luoghi compatibili con la persona che sei diventatə.
Esistono aziende che non vedono i dipendenti come risorse da spremere.
Esistono leader che ascoltano, non solo comandano.
Esistono lavori che ti sfidano senza esaurirti, che ti rispettano senza pretendere maschere.
Trovarli non è facile. Ma è possibile.
E quando succede, cambia tutto.
La job satisfaction non è un benefit. È la base.
Sentirsi bene nel proprio lavoro non è un bonus da ottenere “se avanza tempo”. È il fondamento su cui si costruisce una vita con equilibrio, dignità e possibilità.
Uno studio McKinsey (2022) mostra che le persone che percepiscono un forte senso nel proprio lavoro sono 4 volte più motivate, 8 volte più soddisfatte, e 3 volte più propense a restare.
Il messaggio è chiaro: un lavoro che ha senso non ti consuma. Ti sostiene.
Se ti stai facendo la domanda, è già l’inizio
Se sei arrivatə fin qui a leggere, forse quella voce dentro di te si è già fatta sentire. Quella che ti dice:
“Ci deve essere qualcosa di meglio.”
E sai una cosa? Hai ragione. Quel “meglio” non è un miraggio. Non è una promessa vaga. È un punto di svolta che comincia ogni volta che decidi che sopravvivere non è più abbastanza.
Che vuoi scegliere.
Che vuoi sentirti parte.
Che vuoi smettere di adattarti a una vita che non ti somiglia.
E questo, credimi, è già l’inizio del cambiamento.