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Generazione Z e lavoro: cosa ci raccontano davvero le loro scelte sul futuro delle aziende

15 dic 2025 | 3 minuti di lettura
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Da anni si parla della Generazione Z come un oggetto misterioso del mercato del lavoro: fragile ma ambiziosa, “impegnativa”, “incompleta”, “difficile da trattenere”.
Eppure, la Gen Z non è un enigma: è uno specchio.
E quello che riflette non riguarda solo loro ma tutti noi.

La generazione che non crede più alle narrazioni del passato

La Gen Z è cresciuta in un mondo che ha mantenuto poche promesse: lavoro stabile, crescita economica, meritocrazia lineare. Tutti concetti che oggi sembrano provenire da un’epoca lontana.
Per loro, il lavoro non è più un ascensore sociale ma un sistema da decifrare, spesso incoerente e contraddittorio.

Deloitte, nel suo Global Gen Z Survey 2024, rileva che il 77% dei giovani mette il benessere e il work-life balance davanti allo stipendio. Non perché non abbiano ambizioni, ma perché hanno imparato a riconoscere il costo psicologico della precarietà, del burnout, della “flessibilità” che è tale solo per le aziende.

E non è tutto: il 70% valuta attentamente i valori dell’azienda prima di candidarsi.
Per questa generazione, lavorare non significa solo “avere un posto”, ma avere un contesto in cui poter crescere e sentirsi rispettati.

Una lucidità spesso scambiata per fragilità

Dobbiamo riconoscere un grande merito alla Gen Z : hanno smesso di romanticizzare il sacrificio.

Se un ambiente è tossico, non rimangono “per principio”.
Se il modello di leadership è tossico, se la cultura aziendale smentisce le promesse fatte, se la crescita professionale diventa un miraggio, se la retribuzione non copre nemmeno il costo della vita… se ne vanno, o almeno sono davvero disposti a farlo.

Non per indolenza, ma per consapevolezza.

LinkedIn osserva che il 54% dei giovani lascia un'azienda entro un anno se la cultura non è coerente con l’employer branding dichiarato

E questo, per le  aziende, è un segnale potente: i giovani non sono più disposti a chiudere un occhio sulla coerenza

La cultura aziendale come variabile critica

Lo sentiamo spesso ultimamente: le persone non cercano più un contratto ma appartenenza, rispetto, equilibrio e un ambiente in cui sentirsi parte di qualcosa che si allinei con la loro identità.

Secondo Gallup, solo il 23% dei lavoratori nel mondo si sente realmente coinvolto nella vita aziendale; in Italia, scendiamo sotto il 15%. Un dato che racconta una crisi di senso profonda del lavoro.

Il comportamento della Gen Z in questo senso va visto come un monito sui trend che investiranno (e che in parte stanno già investendo) l’intero mercato del lavoro di domani.
Quando i giovani chiedono benessere mentale, equilibrio, valori, diversità, flessibilità reale, stanno definendo il nuovo standard a cui tutte le aziende devono e dovranno adeguarsi.

Sono i primi a non accettare la logica della “performance permanente”, la narrativa eroica del sacrificio, la retorica del “siamo una famiglia” quando quella famiglia non ti protegge.
Stanno facendo ciò che altre generazioni non hanno potuto, e probabilmente osato, fare: mettere limiti, chiedere diritti, pretendere dignità.

E il mercato del lavoro sta iniziando ad accorgersene: le aziende con un employer branding forte registrano fino al 50% di candidature qualificate in più, mentre l’88% dei giovani vuole aziende che condividano i loro valori.

È qui che la Gen Z sposta il baricentro: non accetta più che il lavoro diventi un progetto di sopravvivenza. Chiede che torni a essere un pezzo della vita, non il suo intero significato.

Quando rifiuta offerte poco trasparenti, ambienti tossici o modelli organizzativi che consumano le persone, non sta “scappando dal lavoro”: sta dicendo che quel tipo di lavoro non le basta più. Che la dignità non è un benefit, che la salute mentale non è un dettaglio e che i valori non sono solo marketing, ma un vero criterio di scelta.

In questo senso, la Generazione Z è più barometro che protagonista: misura la distanza tra ciò che le aziende dicono di essere e ciò che sono davvero. E costringe tutti, HR, manager, fondatori, istituzioni, a farsi una domanda semplice e radicale:
Il modo in cui lavoriamo oggi è sostenibile, umano, desiderabile?