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La nuova povertà: quando lavorare non basta più

17 dic 2025 | 4 minuti di lettura
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Negli anni ’80 la povertà era una condizione associata alla mancanza di lavoro. Oggi, sempre più spesso, è il lavoro stesso a non bastare.
È la contraddizione più grande della nostra epoca: puoi avere un contratto, una busta paga, persino un titolo di studio, e restare povero.

L’Europa li chiama working poor: persone che, pur lavorando, non riescono a garantire a sé stesse o alla propria famiglia una vita dignitosa. In Italia, secondo Eurostat, oltre il 12% delle persone occupate è a rischio povertà, una delle percentuali più alte dell’Unione. Significa che più di un lavoratore su dieci guadagna troppo poco per vivere sopra la soglia di sussistenza.

Dietro questi numeri c’è una realtà che spesso ci è invisibile: contratti part-time involontari, salari bassi, carichi di lavoro crescenti e un costo della vita che non smette di salire.
La “società della performance” non produce più benessere, ma competizione, isolamento e fragilità.

Lavorare tanto, guadagnare poco

Il Rapporto INAPP 2025 parla chiaro: quasi 3 milioni di lavoratori italiani sono in condizione di povertà relativa, e oltre il 10% di chi ha un’occupazione dichiara di non arrivare a fine mese.
Il reddito medio annuo di chi lavora con contratti part-time o discontinui è di circa 12.000 euro lordi, una cifra che, in molte città, non copre neppure affitto e spese essenziali.

A rendere il quadro più paradossale è la narrazione dominante: viviamo immersi in un linguaggio che celebra la produttività, la “meritocrazia”, la performance continua.
Ma dietro la retorica del “chi si impegna ce la fa”, si nasconde un sistema che valorizza la disponibilità totale più della competenza, la fedeltà più del merito, l’immagine più del valore reale del lavoro.

L’individualismo come anestetico

Il risultato è una nuova forma di solitudine sociale.
L’individualismo, presentato spesso come libertà, diventa una gabbia.
Ognuno è chiamato a “gestirsi”, a “reinventarsi”, a “motivarsi” da solo.
E mentre ci convinciamo che la fatica sia un fallimento personale, scompare la dimensione collettiva.
Oggi il lavoratore è spesso solo, anche e soprattutto quando è dentro un’azienda.
L’azienda e la società chiedono di performare, di crescere, di “dare di più”.
Ma raramente ci si chiede se le condizioni per farlo siano giuste, o almeno sostenibili.

La povertà come problema culturale

Parlare di “nuova povertà” non è solo una questione economica ma anche culturale.
Oggi ancora più che ieri, il lavoro resta il principale fattore identitario.
Ma se il lavoro non garantisce più dignità, sicurezza o riconoscimento, allora salta l’equilibrio tra ciò che facciamo e ciò che siamo.

La sfida attuale non è solo aumentare i salari, ma anche e soprattutto cambiare prospettiva.
Rimettere al centro le persone, non le prestazioni.
Ragionare di produttività senza dimenticare la dignità.
Perché una società che misura tutto in base al rendimento finisce per svuotare di valore proprio ciò che la tiene in piedi: il lavoro umano.

Guarda l’intervista completa con il giornalista e scrittore Alessandro Sahebi, con cui abbiamo affrontato un dialogo sulla società della performance, sui nuovi poveri e sulla necessità di immaginare un modello di futuro più giusto, collettivo e umano.